Un secolo di storia sembra separare il 1925 dal 2025, eppure alcune somiglianze tra quei due mondi fanno riflettere su come la storia possa “far rima” attraverso le generazioni.
Roma, 6 marzo 2025. Un signore ultracentenario, se potessimo intervistarlo oggi, potrebbe dirci di aver già visto questo film. Dopo una pandemia globale, la gente torna a riempire le strade con una voglia di normalità e spensieratezza. L’economia rimbalza, le tecnologie rivoluzionano il quotidiano, e intanto la politica ribolle di fermento e tensioni. Stiamo parlando del mondo del 2025… ma potremmo descrivere allo stesso modo gli anni Venti di un secolo fa. Le analogie tra il 1925 e il presente sono così sorprendenti che in molti si chiedono: stiamo vivendo una sorta di nuovo “Grande Gatsby” globale, destinato a replicare gloria e miserie di un passato lontano?
Ripercorriamo quei parallelismi. Nel 1925 l’umanità si leccava le ferite: la Prima Guerra Mondiale era finita da pochi anni, l’influenza spagnola aveva ucciso milioni di persone. Eppure, proprio allora esplodevano i Roaring Twenties, i ruggenti anni Venti. Jazz, feste, lusso sfrenato per chi poteva permetterselo: un decennio di boom economico e innovazione tecnologica. Automobili in catena di montaggio uscivano a milioni dalle fabbriche di Henry Ford, la radio portava musica e notizie nelle case, nei cinema compariva il sonoro. Le metropoli crescevano in altezza – pensiamo ai grattacieli di New York – e in tutto l’Occidente serpeggiava l’idea che una nuova era di prosperità fosse alle porte. Oggi, nel 2025, c’è un’aria simile di trasformazione e speranza: dopo gli anni difficili della crisi finanziaria del 2008 e poi della pandemia di COVID-19, l’economia globale prova a ripartire. Abbiamo Internet ultraveloce 5G, l’intelligenza artificiale, le auto elettriche e forse presto viaggi spaziali turistici. I festeggiamenti per la fine delle restrizioni pandemiche nel 2021 – concerti, locali di nuovo pieni, voglia di anni ’20 moderni – hanno ricordato a molti le foto in bianco e nero di folle danzanti al Charleston un secolo prima.
Ma attenzione, la storia ci insegna che ai grandi entusiasmi possono seguire rovesci improvvisi. Nel 1929, a soli quattro anni da quel 1925 ottimista, il mondo precipitò nella Grande Depressione. La Borsa di New York crollò, trascinando banche e imprese nel fallimento e mettendo in ginocchio lavoratori ovunque. Quello che era parso un progresso inarrestabile rivelò le sue crepe: dietro ai lustrini del jazz, molti americani comuni guadagnavano poco e non potevano sostenere i consumi; la ricchezza era concentrata in poche mani e la speculazione finanziaria galoppava incontrollata. Oggi, mentre i listini di Wall Street e delle altre borse toccano nuovi record, alcuni analisti mettono in guardia: le disuguaglianze economiche sono tornate ai livelli degli anni ’20 e diversi settori vivono una bolla speculativa. Basti pensare ai prezzi stellari delle azioni tecnologiche o al fenomeno delle criptovalute, con impennate e crolli repentini. Certo, il paragone ha i suoi limiti – oggi le banche centrali intervengono energicamente e i governi cercano di attenuare gli shock con manovre fiscali – ma il monito del passato resta valido: un sistema dove pochi prosperano e molti faticano rischia di non reggere a lungo. Negli Stati Uniti degli anni ’20, la ricchezza nazionale raddoppiò ma rimase appannaggio soprattutto dei magnati, mentre agricoltori e operai soffrivano; negli Stati Uniti di oggi, dopo anni di crescita, il divario tra i super-ricchi della Silicon Valley e la classe media si è ulteriormente allargato. Allora ci fu il giovedì nero del 1929; oggi c’è chi teme un nuovo tonfo finanziario se l’inflazione e i debiti sfuggiranno di mano.
Le analogie non si fermano all’economia. Guardiamo alla politica e alla società. Nel 1925 in Italia Benito Mussolini consolidava il suo potere instaurando una dittatura: partiti oppositori e stampa libera vennero messi a tacere. In Germania covava il risentimento per la sconfitta nella Grande Guerra e l’umiliazione del trattato di Versailles. Poco più tardi, nel 1933, Adolf Hitler avrebbe preso il potere, sfruttando la crisi economica e i rancori nazionalisti. Erano gli anni in cui democrazie fragili cedevano sotto i colpi di movimenti estremisti di destra e di sinistra: fascismo, nazismo, ma anche stalinismo in Unione Sovietica. Oggi le democrazie occidentali sono certamente più solide di allora, eppure alcuni segnali d’allarme fanno suonare l’eco di quel periodo. Pensiamo al crescente successo di partiti nazional-populisti in diversi paesi europei, alcuni dei quali mettono in discussione principi liberali e indipendenza dei media. Pensiamo agli Stati Uniti, dove nel gennaio 2021 il mondo ha assistito attonito all’assalto al Campidoglio da parte di frange estreme pro-Trump: un episodio che molti storici hanno paragonato (con le dovute differenze) ai tentativi insurrezionali del passato, come il Putsch di Monaco di Hitler nel 1923. Anche il linguaggio politico si è surriscaldato: “patrioti” contro “nemici interni”, “popolo vero” contro “élite corrotte” – retoriche che richiamano alla mente gli slogan dei regimi autoritari del Novecento. Naturalmente, la situazione odierna è diversa – viviamo in stati di diritto consolidati – ma il fatto stesso che si facciano questi paragoni la dice lunga sulle tensioni attuali.
Un altro punto di contatto tra i due periodi riguarda le paure globali e le reazioni di chiusura. Nel 1925 l’Europa, uscita traumatizzata dalla guerra, cercava di costruire la pace ma senza molta fiducia reciproca. Gli Stati Uniti si chiudevano in se stessi promulgando leggi ferree contro l’immigrazione (nel 1924 introdussero quote rigidissime, ispirate anche da teorie razziste dell’epoca). Oggi, dopo decenni di globalizzazione, assistiamo a un certo riflusso nazionalista: vari Paesi alzano barriere, sia commerciali che fisiche, e i flussi migratori sono al centro del dibattito politico con toni spesso infiammati. “America First” negli USA, la Brexit nel Regno Unito, e movimenti sovranisti in Italia e altrove esprimono la stessa voglia di proteggere i confini e l’identità nazionale che un secolo fa animava molte piazze europee. Anche sul fronte della cooperazione internazionale, il paragone viene spontaneo: la Società delle Nazioni negli anni ’20 era un’organizzazione debole, incapace di impedire l’aggressione di Italia e Giappone negli anni ’30; l’ONU di oggi, pur con molti più membri e mezzi, spesso rimane impotente di fronte ai conflitti (vedi il veto che paralizza il Consiglio di Sicurezza nel caso della guerra in Ucraina). Così, l’ordine mondiale del 2025 sembra più stabile di quello del 1925 solo in apparenza, ma sotto la superficie è attraversato da tensioni simili: rivalità tra grandi potenze, corse agli armamenti (oggi anche tecnologici, come la supremazia nell’Intelligenza Artificiale), scontro tra modelli di governo autoritari e democrazie.
Eppure, non tutto è identico e destinato a ripetersi. La storia offre rime, non fotocopie. Se è vero che le somiglianze tra 1925 e 2025 possono impressionare, è altrettanto vero che oggi abbiamo qualche vantaggio in più. Abbiamo memoria di ciò che accadde dopo gli anni ’20: sappiamo che quel decennio scintillante terminò in un decennio buio di crisi economica e guerra mondiale. Questa consapevolezza spinge molti leader e istituzioni ad agire (si spera) con maggiore prudenza. Ad esempio, di fronte all’emergere di nuovi autocrati, l’Unione Europea ha meccanismi – per quanto lenti – per sanzionare violazioni dello stato di diritto; difronte ai segnali di surriscaldamento finanziario, le banche centrali alzano i tassi prima che la bolla scoppi (come sta avvenendo in questi mesi per frenare l’inflazione). Inoltre, la società civile contemporanea è più informata e attiva: movimenti per la giustizia sociale, per il clima, contro le discriminazioni, rappresentano anticorpi democratici che nei ruggenti anni Venti erano assai più deboli. Basti ricordare che nel 1925 in Italia le donne non avevano diritto di voto e le minoranze subivano discriminazioni diffuse senza tutele; nel 2025, pur con tutti i problemi irrisolti, la coscienza dei diritti umani è incomparabilmente più estesa e radicata.
Insomma, il 2025 non è il 1925, ma certe suggestioni storiche ci aiutano a leggere il presente. Viene spontaneo chiedersi se stiamo ballando sul “Titanic” come fecero alcuni negli anni ’20, ignari dell’iceberg del 1929 all’orizzonte, oppure se sapremo cambiare rotta in tempo grazie alle mappe del passato. La risposta dipenderà da come affronteremo le sfide attuali: ridurre le disuguaglianze economiche, ricucire le fratture sociali, rafforzare la collaborazione tra i popoli invece di cadere nella trappola dell’odio e del sospetto. La storia non predice il futuro, ma ci offre preziosi avvertimenti. Un secolo fa, il mondo ignorò quei segnali e pagò un prezzo altissimo. Oggi abbiamo l’occasione – e la responsabilità – di fare tesoro di quella lezione, così che il nostro decennio possa “ruggire” in modo positivo e non trasformarsi nel rombo minaccioso di tempesta che travolse la generazione dei nostri bisnonni.